Claudio Di Pucchio, l’anticipazione di Pirlo

martedì, 09 Agosto 2022

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“Era l’anno 1952, noi bambini giocavamo per strada. Non era come adesso, che ci sono tante auto, e soprattutto non c’erano i pericoli di oggi. Quindi, le nostre prime partite le facevamo proprio per strada. A dieci anni iniziai a frequentare l’Azione Cattolica ‘Giosuè Borsi’, dove si trova il Torrione con Don Dino. Era importante frequentare l’Azione Cattolica, in quanto dava a noi giovani dei principi e volontà al sacrificio. Sono stato là per nove anni: dal 1955 al 1963. Nell’occasione ho conosciuto più di seicento giovani. Nella ‘Giosuè Borsi’ si facevano dei tornei interni di calcio: i miei primi tornei. I più bravi venivano selezionati per giocare quelli diocesani. Il primo torneo lo vincemmo alla grande e già allora mi distinsi tra i giovani. Nell’anno 1959 arrivò al Sora Calcio un certo Giuseppe Gricoli, che mi vide giocare e mi portò con lui nella selezione juniores del Sora del ’60. L’anno successivo debuttai in prima squadra con il ruolo di centrocampista”. A parlare della sua vita è Claudio Di Pucchio, che anche il “Moccagatta” finì per adottare come uno dei suoi figli più cari. Ribadisce concetti già espressi in una delle sue interviste più recenti, rilasciata a Roberto Caringi di www.sora24.it.

dipucchioalessandriaDi Pucchio al “Mocca” contro il Savona.

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Di Pucchio oggi, ha 78 anni

“In quegli anni poi fui selezionato per la Rappresentativa laziale prosegue –. Al termine del campionato 1963-‘64 vincemmo il titolo nazionale. Tantissimi sacrifici, perché oltre a giocare dovevo studiare. Ricordo che andavo con l’autobus fino a Cinecittà per fare gli allenamenti e nel frattempo stavo sui libri. Il mio allenatore nel Sora fu Luigi Giuliano, detto ‘Gigi’, giocatore di serie A del Torino e della Roma. Lui mi portava a Roma il martedì per allenarmi con la Rappresentativa laziale e poi il giovedì tornavo con il pullman. Ricordo ancora dove lo aspettavo: via Marsala. Nel 1965 la società del Sora mi voleva cedere alla Lazio in serie A, ma decisi di accasarmi all’Avellino in serie C nazionale”.due

Ancora Di Pucchio: “Dato che il mio fisico era mingherlino, l’Avellino mi disse esplicitamente che avrei dovuto fare una preparazione a parte con il professor Trulli. Io feci credere alla società che ero d’accordo, ma non ci andai, per quanto era forte il desiderio di ritornare a Sora dai miei genitori e amici. Avevo poco più di 19 anni. L’Avellino mi fece un servizietto: mi cedette al Chieti, sempre in serie C, dove realizzai due goal. Però, nell’anno 1966-67 approdai alla Lazio in serie A. Non era come ora che ci sono le panchine, in quegli anni si giocava davvero in undici contro undici. Riscaldai per tanto tempo il mio posto in tribuna. Il mio debutto era previsto a novembre contro il Napoli, al ‘San Paolo’. Però, il mio allenatore, Mannocci, prima della gara, quando diede i nomi dei titolari, ne diede dieci per riservarsi quello dell’undicesimo, il mio… pensavo. Una volta allo stadio, quando vide che c’erano 60.000 spettatori, tornò negli spogliatoi, mi chiamò in disparte e mi disse che non sarebbe stata questa la partita giusta per l’esordio in A.

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Quindi mi toccò di nuovo la tribuna, con la promessa però che il mercoledì mi avrebbe fatto debuttare a Roma, nella Mitropa Cup contro la Stella Rossa di Belgrado. La Lazio perse a Napoli 1 a 0, goal di Sivori. Tornati a Roma, l’allenatore mi disse di ritornare il lunedì pomeriggio per preparare la partita con la Stella Rossa. Il giorno seguente andai al bar a fare colazione e appresi dal ‘Corriere dello Sport’ la notizia: ‘Mannocci silurato’. Non potete capire il mio stato d’animo alla lettura del titolo. Significava riniziare tutto daccapo. Infatti, ci fu un rimpasto nella squadra. Io continuavo ad allenarmi e mi sentivo pronto, ma il mio debutto arrivò all’ultima partita di campionato Juventus-Lazio. Partita decisiva per entrambi: la Juve doveva vincere per forza per aggiudicarsi lo scudetto, noi dovevamo vincere per rimanere in serie A. Mi ricordo lo stadio strapieno. Il primo tempo finì 0 a 0. Nel secondo tempo sentimmo un boato dal pubblico: l’inseguitrice della Juve, l’Inter, stava perdendo.

treil rigore trasformato al “Comunale” di Torino contro la Juventus.

Questo innescò nei giocatori della Juve ancora più grinta, rabbia, ci misero sotto e in poco tempo segnarono due gol. Ormai eravamo retrocessi. L’arbitro però diede un rigore a nostro favore. Nessuno dei miei compagni lo voleva tirare. Avevano paura di sbagliare. Già il fatto della retrocessione, se poi ci si metteva un rigore sbagliato. Così dissi a tutti che lo avrei tirato io. In porta c’era un certo Anzolin. Segnai! Ma non fu quella la gioia totale: la più grande soddisfazione fu leggere le pagelle dei giocatori. Un certo Claudio Di Pucchio di Sora aveva ricevuto dal ‘Corriere dello Sport’ un bell’otto e mezzo. Poi commisi degli errori a livello comportamentale, che si fanno da ragazzo, e la società mi diede in prestito alla Massese in C. Feci un campionato eccezionale, tant’è vero che la Lazio l’anno successivo mi riprese. Ma nonostante la stima che l’allenatore aveva per me, non riuscivo a trovare spazio. E così ritornai a calcare i campi di C”.

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re partita al “Moccagatta”. In foto si riconoscono Lorenzetti, Sassaroli, Vanzini, Proietti e Paparelli.

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Con Pierino Prati in occasione di un’amichevole tra l’Alessandria e il Milan.

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Con l’arbitro Gianfranco Menegali.

La voce di Di Pucchio a questo punto si incrina di commozione: “Ebbi però la fortuna di indossare la gloriosa maglia grigia dell’Alessandria. Chi lo ha fatto, può benissimo darmi ragione che è come avere una seconda pelle. Mi sento molto legato ai Grigi, che seguo sempre con tanta trepidazione e il fatto che il mio sentimento sia autentico, lo dimostra che a distanza di così tanti anni io sia ancora profondamente triste per i due secondi posti consecutivi e le mancate promozioni in B, perché allora andava su solo la prima classificata. Nel torneo 1970-’71 ci beffò la Reggiana, il campionato successivo il Lecco. Ma mentre nel primo caso, nonostante onestamente non avessimo potuto più di tanto davanti ad una Reggiana davvero forte, nel secondo fummo noi a perdere il campionato. Fu una stagione tormentata, con i tifosi sempre sul piede di guerra, tanto che a farne le spese fu l’allenatore David, che se ne andò. Ricordo che addirittura suo figlio venne affrontato malamente da alcuni scalmanati che andarono sino alla scuola che frequentava. Ad Alessandria giocai con i poveri Sassaroli e Lorenzetti, che non potrà mai dimenticare”.

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In allenamento al “Moccagatta”.

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In maglia grigia, mentre si disseta; si riconosce anche il portiere santino Ciceri.

Alla fine Di Pucchio ritorna a Sora nella stagione 1976-‘76 con il ruolo di giocatore-allenatore. Questo per tre anni, poi decise di attaccare gli scarpini al chiodo e così intraprese la carriera in panchina. Dopo tanti anni trascorsi ad allenare squadre di Interregionale, quando tornò a Sora nel 1988 aveva un unico obiettivo: riportare la squadra della sua città sulle schedine del totocalcio. C’è riuscito, insieme al fatto di lanciare e rivalutare giocatori del calibro di Pasquale Luiso,  Denis Godeas, Giuliano Giannichedda e Stefano Casale tanto per citarne alcuni conosciuti al grande pubblico.

quattroAllenatore del Sora in C1, nel campionato 1996-’97.

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Con il tecnico Mario David; sullo sfondo Lorenzetti.

“Avevamo fatto con la società una programmazione tale che potevamo raggiungere quel sogno in cinque o massimo sei anni – spiega – Nel 1991-‘92 vincemmo il campionato d’Interregionale e approdammo così nel campionato di C2 professionistico. Poi salimmo in C1. Tutti vedevano in me colui che aveva realizzato un sogno. Invece, non era così. Per questo ho sempre preferito festeggiare a casa con la mia famiglia e non in piazza. Il maggior risultato che ho ottenuto è dare agli altri la soddisfazione: ai giocatori, che in quel momento erano il simbolo della città stessa; ai tifosi, che ci seguivano ovunque; alla città intera. Questo era il mio orgoglio, vedere le persone soddisfatte. Per questo ho sempre detto ai miei giocatori che andavano a giocare in A, di non essere riconoscenti a Claudio Di Pucchio, ma a sé stessi e di continuare sempre a combattere per avere le migliori soddisfazioni”.

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Con l’allenatore Manente.

“Oggi il calcio è cambiato. Sono cambiate già le regole: imponendo di far giocare gli under – conclude Di Pucchio -. Il posto bisogna conquistarselo in allenamento. Con questa regola assurda, si pensava di far crescere calcisticamente i giovani, senza capire invece che sarebbe stata la loro condanna. Così il ragazzo che stimoli ha? Tanto comunque vada, o è in forma o non lo è, il suo posto non si tocca. Non hanno competizione. E poi il mondo del calcio è cambiato perché i giocatori non sono più dei simboli per la città, ma vanno e vengono solo per interessi economici. Questa è la politica sbagliata. Come la politica di far vedere troppe partite in tv, che ha allontanato la gente allo stadio. Il calcio non è più quello di una volta”.

Un’ultima domanda: visti i suoi trascorsi, per chi fa il tifo tra la Lazio e l’Alessandria?

“Non ci sono dubbi. Per l’Alessandria, mi sembra di averlo fatto intuire quando ho detto che soffro ancora tanto per non aver potuto ottenere la promozione in maglia grigia. Non potrò mai dimenticare quando andai alla stazione per lasciare definitivamente Alessandria. Fu un vero e proprio strazio, perchè lasciavo un gruppo che per me era diventato come una famiglia. Dovete sapere che sin dall’inizio mio papà non era contento che io facessi il calciatore, per cui mi sono sempre posto il raggiungimento dei 28 anni per decidere. Avrei continuato a giocare lontano da casa solo se fossi stato almeno in una squadra di serie B. Si compì così il mio destino, anche se il presidente Sacco mi proponeva continuamente di rimanere per poi iniziare con i Grigi il percorso per diventare allenatore”.

Mario Bocchio

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