Il nostro Moccagatta, il nostro tempio di una vera fede laica

domenica, 24 Aprile 2022

Ogni volta che i Grigi scendono in campo, continuiamo a inseguire l’eco di un’emozione datata. In apparenza il Moccagatta è solo un campo di pallone, inaugurato ottantotto anni fa. In realtà è il tempio di una fede laica che parla di amore e morte, speranza e nostalgia. Il Mocca è lo stadio dove quelle lontane Alessandrie annichilivano gli avversari – dalla Juve del Quinquennio d’oro al Grande Torino, dal Milan di Gre-No-Li all’Inter di Angelillo – affossandoli nel fango.

È il luogo dove dalla vecchia tribuna pare giungere, rigorosamente senza tirare il fiato, l’annuncio di quella squadra:

StefaniBrottoNardiTraversoPedroniAlbertelliCastaldoManentiVitaliTinazziMorbello.

Pedroni palleggia nell’antistadio del Moccagatta.

L’ultima promozione in Serie A. È la nostra Casa dove l’immancabile “casalemerda” non suona mai come una frase blasfema, ma semplicemente diventa espressione della nostra identità. Al Moccagatta molti hanno scoperto la paura da palcoscenico, capace di mietere vittime illustri

Alessandria-Casale, campionato 1991-’92. Lo striscione nerostellato… e poi finito in Curva Nord.

Quando si parla di imprese bisogna scomodare la storia e i tifosi dei Grigi hanno certamente un passato glorioso da cui attingere per caricare l’ambiente e prepararsi a novanta minuti che “al Bernabeu dei poveri” – come Gianni Brera definì il Mocca – sono stati e sono sempre molto lunghi. Si forma così il nostro “Miedo escénico”, espressione, coniata da Jorge Valdano e presa in prestito dal Premio Nobel per la Letteratura Gabriel Garcia Marquez: si riferisce alla pressione che sente un calciatore entrando in uno stadio gremito di gente. Il ritmico e deciso incitamento “Forza Grigi! Forza Grigi! Forza Grigi!” è sempre stato il fattore determinante. Lo strumento della paura da palcoscenico. Ci viene in mente quello che una volta ci spiegò Mario Pietruzzi, uno degli eroi indiscussi del Moccagatta.Durante tutta la settimana, bisogna ricordarsi che si va a vincere. Intimidire gli avversari già fuori dagli spogliatoi, con sguardi penetranti e gesti di sfida. Nel sorteggio con l’arbitro, scegliere il calcio d’inizio a proprio favore: l’avversario non deve toccare la palla per primo. La prima giocata deve raggiungere la linea di fondo, o strappare un incitamento dagli spalti. Compiere il primo fallo della partita: meglio se è un fallo un po’ pesante che intimidisce l’avversario. Fare il primo tiro in porta: non interessa se è nello specchio o finisce sui cartelloni pubblicitari. Accorciare l’intervallo e tornare in campo prima che lo chieda l’arbitro. Mettere sempre pressione. Tracciare una linea immaginaria nella propria metà campo e decidere che oltre quella l’avversario non può andare. Creare il massimo del caos in campo, così da farlo notare al pubblico e coinvolgerlo. Regole non scritte che valevano allora e che valgono ancora oggi. Che hanno determinato successi di valore come quelli del 1956 sul Verona, poi quelli propiziati da Tacchi e Lojacono, quelli del 1973 sul Parma, del ’61 e ’62 due volte consecutive con la Reggiana, del ’64 sul Foggia, del ’75 sulla Sambenedettese, dell’85 sul Prato e del 2008 sulla Biellese. Ma anche nel giugno del 1981 in quell’Alessandria-Pavia con il rigore di Pasquali all’ultimo minuto, e in quello di Nicco nella sfida playoff contro il Lecce. Ma soprattutto dello scorso giugno con il rigore di Matteo Rubin contro il Padova, nella finalissima dei playoff che ci ha regalato lo storico ritorno tra i Cadetti. Regole non scritte imparate da Maglie Grigie vere come Ciccio Marescalco e Fabio Artico, gli ultimi che hanno saputo creare un rapporto unico con il Moccagatta.

La foto sotto il titolo ritrae Notti e Gastaldi che entrano in campo.

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