Alessandria scopre Gianni

mercoledì, 21 Dicembre 2022

Gianni Rivera e Giuseppe Cornara

Gianni Rivera nasce il 18 agosto 1943 a Valle San Bartolomeo, dove dalla vicina Alessandria si sono rifugiati i suoi per sfuggire ai pesanti bombardamenti che in quei giorni stanno martoriando la zona.

Ad Alessandria trascorre l’infanzia, nella casa di via Pastrengo al numero uno.

«Una casa da povera gente in una via di povera gente. Una via snobbata, senza il pericolo che vi passassero automobili: una vera manna. Perchè cominciavamo in cortile, con i primi palleggi; poi sforavamo nella via, nel primo pomeriggio o all’imbrunire, dopo i compiti provvisori che ci venivano da maestri provvisori in una scuola provvisoria. Sentivo dire, intorno a me, che l’Italia era sulla strada della ricostruzione. Io, che sulla strada c’ero già, avevo rari momenti di ottimismo».

In quell’Italia del dopoguerra, febbrilmente intenta a spazzare via le macerie del conflitto, Gianni cresce esile ma forte, perchè il carattere, forgiato tra le ristrettezze economiche, lo avvia a una precoce maturità. Il padre, Teresio, sgobba come meccanico e ammira le virtù del primogenito, in cui incoraggia la propria stessa passione del pallone, mentre la madre Edera lavora in casa e cresce i due figli (il secondo si chiama Mauro) congiungendo a fatica il pranzo con la cena.

Gianni Rivera in famiglia con la mamma Edera, il papà Teresio e il fratello Mauro

La prima squadra è quella dell’oratorio Don Bosco. A tredici anni, la svolta, preannunciata da un piccolo litigio casalingo: il babbo ha preso appuntamento per un provino con l’Alessandria, allo stadio Moccagatta; la madre invece, per lo stesso giorno, ha già programmato il viaggio a Valle San Bartolomeo, per la festa del paese coi nonni. Alla fine è armistizio: la madre col fratellino Mauro (otto anni) andrà al paese in corriera; il padre Gianni, in bicicletta, si recheranno al campo sportivo, prima di raggiungere gli altri al paese.

Giovanili nel 1956. Il terzo in piedi da sinistra con la maglia grigia è un giovane Gianni Rivera

«Quando arrivammo al campo, altri ragazzi erano già nelle mani di Cornara, il preparatore della squadra giovanile dell’Alessandria. Guardai senza troppa paura i provini degli altri: non erano provini difficili, mi dissi, a meno che l’emozione mi tagliasse le gambe. Mio padre disse che quelle cose le sapevo fare tutte e benissimo. Lo sapevo. Ma sapevo anche, ed ero l’unico a saperlo, che stavo vivendo il mio piccolo dramma. Le scarpe nuove, come quelle di un borghese qualunque; i primi calzoni lunghi; un padre pieno di fiducia; i nonni che mi aspettavano al paese dove mia madre, alla prima occhiata, avrebbe capito il successo o no dell’impresa che aveva osteggiato. E se fosse andata male? C’era o non c’era una prova d’appello? Poi il signor Cornara mi chiamò. Aveva della simpatia per me, forse per quelle mie gambette lunghe e magre. C’era un tono nella sua voce che mi rimise addosso un po’ di coraggio. Provai, calciai qualche palla, piuttosto benino. Quando passammo agli stop volanti e ai passaggi di prima a un compagno, intorno a me si fece il crocchio dei curiosi. Buon segno. Ma Cornara? Lui, cosa ne pensava? Non lo diede a vedere; disse che, forse, avrei ricevuto una convocazione in settimana. Restammo così, mio padre e io, con l’impressione di aver fatto cilecca. Ci mettemmo a pedalare in silenzio, sotto il sole. Arrivammo a Valle in tempo per goderci la festa. Goderci? Si fa per dire. Mia madre voleva sapere com’era andata, mio padre diceva bene, io ero nero e insoddisfatto. Passai un pomeriggio un po’ triste, con la scarpa destra moscia e afflosciata come me. Avevo tredici anni, una speranza che traballava e una settimana di passione da affrontare in attesa che Cornara mi chiamasse…».

Un giovane Rivera nell’Alessandria. Lo vediamo anche mentre viener allenato dal suo pigmalione Franco Pedroni

In realtà, andatosene dal campo, lo stesso Cornara aveva confidato a un dirigente: «Avete visto quel biondino? Farà strada, ve lo dico io…». Tre giorni dopo, una lettera dell’Alessandria annunciava che «Il signor Gianni Rivera» era «accettato, come giovane leva dell’Alessandria».

Il trasferimento dalla Don Bosco (che ne ricava una ventina di paia di scarpe da calcio) è cosa fatta. Gianni entra nel mondo del calcio, anche se la scuola resta in cima ai suoi pensieri. Conquista il diploma da ragioniere e comincia a conquistare il pubblico. Nei ragazzi dell’Alessandria gioca il torneo dei «Federati» e spesso capita che l’appuntamento sia in anteprima ai «grandi»: ebbene, sparsasi la voce, alle 13,30 il pubblico è già folto, al Moccagatta, per ammirare il «biondino» dai piedi di velluto. Pressappoco quanto accadrà, qualche lustro più tardi, quando le esibizioni del «baby» Maradona manderanno in sollucchero la gente ben più delle prodezze della prima squadra cui fanno da contorno.

Un giorno i ragazzi sono in campo contro i granata del Torino, tra gli spettatori c’è il grande Silvio Piola, indimenticato centravanti campione del mondo. Un cronista locale della Rai gli chiede un parere sul «biondino»: «Quanti anni ha, diciotto?» chiede l’ex campione. «No, solo quattordici» gli viene risposto. «A quell’età» commenta Piola «le cose che sa fare questo ragazzo io non le sognavo nemmeno!». È il segno di una precocità eccezionale, che presto raggiunge la prima squadra.

«Fu un giorno apparentemente come gli altri. Ci allenavamo sotto lo sguardo vigile di Cornara in un campetto vicino a quello dell’Alessandria. Pioveva e l’allenamento era stato ridotto a pochi palleggi, giri di campo e infine a una partitella sei contro sei su un terreno di dimensioni minime. Vidi arrivare una macchina; ne riconobbi il guidatore: era Franco Pedroni, l’allenatore della prima squadra. Mi guardava. Io ce la mettevo tutta. Credo di aver fatto benino. Poi, vidi Pedroni confabulare con Cornara. E pioveva più forte. Per la pioggia, Cornara ci mandò a casa tutti in anticipo. Poi si rimise a confabulare con Pedroni. Si capiva che parlavano di me. E infatti. Era un giovedì, benedetto giovedì e benedetta pioggia. Al sabato appresi dal comunicato appeso alla bacheca della sede che ero tra i convocati per la partita di domenica, una partita di Serie A. Ovviamente, non giocai quella partita. Pedroni voleva che prima mi ambientassi con i miei nuovi compagni. Aveva ben capito le esigenze del mio fisico non ancora formato e piuttosto minuto, sicché non mi portò subito a compiere allenamenti più gravosi o più intensi. Mi tirò su a poco a poco. Mi mandò in montagna parecchie volte e mi fece fare del canottaggio per il torace. Mi curava come si può curare un figlio, mi teneva nel cotone, aveva per me dei progetti (o dei sogni) grandiosi. In poche parole: mi vedeva già al fianco di Schiaffino nel suo grande, indimenticabile Milan».

Già protagonista sulla stampa

L’esordio arriva comunque prestissimo: è la penultima di campionato, si gioca Alessandria-Inter, il 2 giugno 1959, Gianni non ha ancora sedici anni e si vede affidare la maglia numero otto. Per i Grigi giocano: Notarnicola, Bernardi, Giacomazzi, Sniderò, Pedroni (che è giocatore e allenatore), Pistorello, Filini, Rivera, Vonlanthen, Moriggi, Tacchi.

«Giocai male. Qualche tocco delizioso, come sempre, ma la paura da morire che avevo nelle gambe non mi consentiva di fare di più».

Questo il suo commento. Tutto diverso quello degli avversari, sulla maggioranza dei quali il suo tocco di palla produce un effetto dirompente. Pedroni si complimenta con il ragazzino e spiega a un cronista amico: «Siamo pronti per tentare con il Milan. Il ragazzo finirà al Milan, in Nazionale e poi chissà ancora dove…». La profezia fa in fretta a prender corpo.

«Provai per il Milan a campionato concluso. Fu Pedroni stesso a portarmi a Milano, da Gipo Viani. Il Milan giocava in quel giovedì una partitella d’allenamento all’Arena. Viani mi fece scendere in campo per quaranta minuti, dopo aver retrocesso Schiaffino in mediana per lasciare a me un posto di mezz’ala. Fu un incanto. Mi trovavo con Schiaffino a occhi chiusi. Lui dava la palla a me, io a lui, di prima, al volo, palloni radenti e precisi. Il primo a dirmi “muy bien” fu proprio Schiaffino, alla fine della mia partitella-prova. Viani, un po’ più secco, un po’ più sulle sue. Almeno con me. Con Pedroni disse che non mi avrebbe lasciato andar via per tutto l’oro del mondo. Il mio passaggio al Milan era cosa fatta. Gli accordi prevedevano però che restassi ancora un campionato nell’Alessandria per farmi, è il caso di dirlo, le ossa. Ero in comproprietà e l’anno dopo sarei passato definitivamente alla squadra rossonera».

La stagione 1959-‘60 è intensissima. Gianni gioca titolare in A tra le file dell’Alessandria (venticinque partite, sei gol), con la Nazionale Juniores impegnata nel Torneo Uefa, con quella Olimpica che prende parte ai Giochi di Roma. Segna a raffica, anche se non sempre riesce ad accontentare tutti e nasce pure qualche polemica quando l’Alessandria, con l’acqua della classifica alla gola, non concede il «golden boy» alle esigenze azzurre.

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