Quando i Grigi vinsero la Coppa Italia: cronaca di una finale entrata nella storia

lunedì, 23 Aprile 2018

 

La Coppa Italia Semipro (poi Coppa Italia di Serie C, poi di Lega Pro ed oggi ancora di Serie C è la nostra classica ciliegina sulla torta, l’unico vero trofeo che conta vinto dall’Alessandria. Fu istituita, per la prima volta, durante la stagione 1972-‘73 (dopo aver sentito il parere di tutte le società) e vide ai nastri di partenza la partecipazione delle sessanta squadre di Serie C con l’aggiunta delle seconde e delle terze classificate nei gironi di Serie D dell’annata precedente. A contendere la Coppa all’Avellino furono proprio i Grigi di Mister Pippo Marchioro (giunti terzi in campionato, alle spalle di Parma e Udinese) che, dopo aver fatto loro il girone con Savona, Dertona e Asti MaCoBi, si guadagnarono la finale dopo aver eliminato la Pro Vercelli, lo Spezia e il Modena.

Sergio Favot in panchina con l’allenatore Pippo Marchioro, Carlo Sacco, Gigi Manueli e Sergio Vigano.

 

L’Avellino, nel suo cammino verso la finale, eliminò la Salernitana e il Matera, piazzandosi primo nel proprio girone poi, via via, vennero superate la Juve Stabia, il Lecce negli ottavi, il Cosenza nei quarti e il Giulianova in semifinale.

Il biglietto della finalissima tra Alessandria e Avellino.

 

Lo stadio Flaminio di Roma.

 

Giuseppe “Peppetto” Lorenzetti, scuola Lazio, era un numero 10, una classica mezzala di punta, un giocatore di grandissima qualità. Basti pensare a cosa c’era scritto su uno striscione a lui dedicato che campeggiava sugli spalti del Moccagatta: Rivera + Benetti = Lorenzetti. Nella tifoseria alessandrina di una certa età rimarrà di lui un ricordo indelebile. Il 24 giugno 1973, lanciato da Cini, realizzò il gol del pareggio nella semifinale contro il Modena.

Il gol di Lorenzetti al Modena in semifinale.

 

Data e sede della prima finale storica della manifestazione: 29 giugno 1973 a Roma, stadio Flaminio. Partita aperta e combattuta, passa in vantaggio l’Alessandria con Attilio Maldera – Maldera II – che di testa gira in rete una punizione calciata proprio da Lorenzetti al 16’. Immediata la reazione avellinese che pareggia al 49’ grazie a Bongiorni (gran tiro al volo) per ribaltare il risultato al 65’ con Palazzese che sorprendeva il portiere Flavio Pozzani con un tiro da oltre venti metri. Nemmeno il tempo di esultare per il vantaggio che i Grigi, al 67’, pervenivano al pareggio con Sergio Cini che depositava in rete su assist ancora di Lorenzetti, rete contestata dai biancoverdi per un sospetto fuorigioco.

Una fase della partita.

 

Sugli spalti il pubblico irpino (circa cinquemila persone) iniziava a esternare tutto il suo disappunto, contestando l’arbitro Pierluigi Levrero di Genova accudandolo – nel periodo di maggior spinta irpina – di sorvolare su parecchi episodi, negando anche un penalty dopo un fallo di Marcello Di Brino su Bongiorni. L’episodio che cambia il match arriva nei supplementari: Palazzese, dopo aver subito fallo, colpisce Bruno Mayer al volto venendo ammonito per la seconda volta. L’espulsione è una mazzata tremenda, sotto di un uomo l’Avellino incassa le reti del ko, merito del solito Lorenzetti che al 108’ (di testa su cross di Roberto Salvadori) e al 112’ firma la decisiva doppietta. La rete del definito 4-2 scatena l’ira dei supporters irpini (rete realizzata con l’attaccante piemontese Ezio Musa tacciato di essere in fuorigioco); infatti, una ventina di persone entravano in campo costringendo l’arbitro a interrompere la gara. Gli scalmanati venivano bloccati e poi allontanati dalle forze dell’ordine ma per Levrero non c’erano più le condizione per continuare, decretando dagli spogliatoi la sospensione della gara, con le due squadre ancora schierate in campo.

Il portiere di riserva dell’ Alessandria Favot, indicato dalla freccia, durante l’ormai famosa invasione di campo dei tifosi avellinesi allo stadio Flaminio di Roma.

 

Una volta il secondo portiere sapeva che, se tutto andava come doveva andare, non avrebbe visto mai il campo di gioco, non avrebbe mai sfiorato per un solo istante la porta custodita saldamente dal numero. Friulano di Casarsa della Delizia, classe 1955, Sergio Favot arrivò in riva al Tanaro proprio in occasione dell’annata 1972-’73: titolare Pozzani, a contendersi la panchina Favot e il milanese Claudio Croci. Risultato: quest’ultimo riuscì a collezionare dieci presenze in campo, Favot nessuna, ma nonostante tutto venne inserito in distinta come numero 12 proprio nella finalissima contro l’Avellino. Quando ci fu l’invasione di campo dei tifosi irpini, se non fosse stato per il povero Arrigo Dolso, forse sarebbe stato linciato.

Già, Dolso (foto a fianco). Autentico talento naturale, sinistro benedetto da Dio. È sufficiente ricordare cosa dicevano di lui i tifosi della Lazio: “Sei mejo de Corso!”. Anche lui friulano, da bambino trascorreva i pomeriggi nel cortile di casa ad inseguire il pallone. Giocava scalzo o con le pezze che avvolgevano i piedi. Nel 1960, entrò nelle giovanili dell’ Udinese, sei anni dopo venne acquistato dalla Lazio, pagando una bella somma, 95 milioni. A Roma rimase fino al ‘71. Divertirsi è stato il filo conduttore della sua esuistenza. Aveva un piede sinistro che incantava. Aveva talento. Ma doveva divertirsi, soprattutto fuori dal campo. In quell’Alessandria c’era anche Salvadori (foto sotto). In quel campionato il primo tentativo di salire in Serie B andò a vuoto, anche se di un soffio, perché fu il Parma ad aggiudicarsi il torneo, anche se in uno stadio Moccagatta pieno zeppo di spettatori, ben ventimila, l’Orso vinse 1-0 proprio contro gli emiliani, con “graffio” della “Faina”. Che divenne poi una pedina fondamentale nel Torino di Gigi Radice che vinse lo scudetto nel 1976. Parlando di talenti, non possiamo non parlare di Gigi Manueli. È vero, lui è sempre stato “tanta roba”. Nel senso che ha sempre avuto tanta classe, della quale le varie squadre in cui ha giocato hanno sempre beneficiato.

Gigi Manueli in azione.

 

Centrocampista duttile, fu utilizzato sia in mediana che, all’occorrenza, sulle fasce per la sua capacità di scattare, saltare l’uomo e piazzare cross. Gianni Di Marzio, che lo allenò al Genoa, ne apprezzava la capacità di farsi trovare sempre libero da marcature. Scoperto dai talent-scout dell’Alessandria Giuseppe Cornara ed Aldo Zaio, crebbe sotto la guida dell’allenatore delle giovanili Mario Pietruzzi; fu convocato in prima squadra il 7 giugno 1970, in occasione della gara di Serie C tra i Grigi ed il Padova. Nel 1983 lasciò Verona per tornare dopo otto anni, ad Alessandria. La nuova esperienza tra i Grigi, caduti nel frattempo in serie C2, durò fino al 1987. Della “bandiera” grigia Toni Colombo c’è poco da dire. In quell’ormai lontana finale del Flaminio dovette abbandonare il terreno di gioco perché si era fratturato il naso. Venne sostituito da Mayer, che è entrato così anche lui a pieno titolo nella storia dell’Alessandria.

Bruno Mayer (a destra) al Moccagatta insieme all’allora portiere del Padova Maurizio Memo.

 

Ruolo di libero, profonde radici venete, proveniva dal Chieti e nella sua carriera ha anche giocato in A con la maglia del Varese, esordendo in massima serie il 3 novembre 1974 in occasione del pareggio interno con la Roma. Coi biancorossi lombardi è stato tra i protagonisti del vittorioso campionato di Serie B 1973-‘74. Dopo l’invasione di campo, il giudice sportivo assegnò la vittoria all’Alessandria, confermando il risultato sul campo all’atto della sospensione.

Mario Bocchio

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