Bruno Nicolè, il più giovane capitano della storia della Nazionale che vestì anche il grigio

martedì, 20 Marzo 2018

“Bruno Nicolè. Ho amato lo sport e ho scelto il calcio, ho amato il calcio e ho scelto lo sport”, di Fabio Nicolè, edito da Berica Editrice, racconta la storia di una carriera calcistica cominciata nella provincia padovana e arrivata ai livelli più alti cui un calciatore possa ambire. A raccontarla è Fabio Nicolè, figlio di Bruno Nicolè, fortissima ala della Juventus “della Prima Stella” e più giovane capitano della Nazionale della storia. Fabio si mette letteralmente nei panni del padre e racconta in prima persona le vicende che hanno portato Bruno dal calcio giovanile alla Serie A.

Nicolè nella Juventus, campionato 1958-’59.

Ma non è semplicemente un libro sul calcio. Con la storia di Bruno possiamo rivivere anche la storia del nostro paese. Una memoria che merita di essere rivissuta e ricordata anche attraverso gli occhi di un giovane ragazzo veneto che si ritrova catapultato nel calcio che conta.

E non è semplicemente un libro su un calciatore perché Bruno non è semplicemente un calciatore. La sua passione per lo sport lo porta a ricoprire, troppo prematuramente, il ruolo di professore di educazione fisica alle scuole medie e superiori con assoluta dedizione, come evidenzia il sottotitolo “…ho amato il calcio e ho scelto lo sport”.

La copertina del libro.

…il maggior numero di messaggi dai lettori mi arrivò per Nicolè. “Non sapevamo la storia”. “Sembra incredibile”. “Intelligente e sfortunato”. Cose così. Intelligente si, sfortunato forse. Quando ci siamo incontrati, Nicolè mi è sembrato un uomo sereno. Dal cacio poteva avere di più, uno che a 18 anni, dopo i due gol alla Francia a Colombes, Gianni Brera aveva paragonato a Silvio Piola. “Due gol e un palo”, precisò Nicolè, segno che non aveva dimenticato nulla. A intelligente e sfortunato aggiungerei un altro aggettivo: sensibile.

Fabio Nicolè.

Basterebbe questo estratto della prefazione firmata dall’inarrivabile Gianni Mura per riassumere il motivo per il quale questo libro non è la biografia qualunque di un giocatore qualunque.

Fece parte della squadra che vinse al Bernabéu contro il Real Madrid nei quarti di finale della Coppa dei Campioni 1961-’62, prima compagine italiana ad affermarsi in casa del Real.

Alla Juventus, con Omar Sivori.

In Nazionale ha disputato otto incontri segnando i soli due gol all’esordio nel novembre 1958. Nel corso della carriera, tra gli attaccanti che gli contesero la maglia azzurra vi furono Altafini, Barison, Brighenti, Mora, Angelillo, Sivori, Pascutti e Sormani. Alla sua penultima apparizione in azzurro, nell’amichevole del 25 aprile 1961 vinta 3-2 a Bologna contro l’Irlanda del Nord, gli fu affidata per la prima e unica volta la fascia di capitano: all’età di 21 anni e 61 giorni, divenne così il più giovane capitano della Nazionale.

Salito alla ribalta troppo giovane, aveva bruciato le tappe e nella parte finale della carriera non riuscì più a esprimere appieno le proprie potenzialità. La Roma lo girò subito al Mantova e l’anno dopo tornò alla Roma, dove nel novembre 1964 siglò il gol della vittoria nella finale di Coppa Italia contro il Torino. Il mese successivo disputò la sua ultima partita in Nazionale e chiuse la stagione in giallorosso con due reti in 13 incontri.

Ormai in declino, nell’estate del 1965 fu trasferito alla Sampdoria, che nella sessione invernale di mercato lo cedette all’Alessandria, in Serie B. Dopo la stagione 1966-’67, che vide i Grigi retrocedere in Serie C, Nicolè si ritirò a soli 27 anni.

Nicolè in maglia grigia, figurina “Tempo” 1966.

La prefazione di Gianni Mura

Nel 2014 intervistai undici calciatori, uno per ruolo. Questi: Vieri; Burgnich, Losi; Furino, Guarneri, Cera; Hamrin, Lodetti, Nicolé, Suarez, Pulici. Molti pensarono fosse la mia formazione ideale, invece no. Non li avevo scelti a caso. Attraverso la loro voce, i loro ricordi, volevo raccontare un altro calcio, un’altra Italia anche. La serie ebbe un certo successo, soprattutto grazie all’umanità e alla disponibilità degli ex calciatori, e il maggior numero di messaggi dai lettori mi arrivò per Nicolè. “Non sapevamo la storia”. “Sembra incredibile”. “Intelligente e sfortunato”. Cose così.

Intelligente sì, sfortunato forse. Quando ci siamo incontrati, Nicolè mi è sembrato un uomo sereno. Dal calcio poteva avere di più, uno che a 18 anni, dopo i due gol alla Francia a Colombes, Gianni Brera aveva paragonato a Silvio Piola. “Due gol e un palo”, precisò Nicolè, segno che non aveva dimenticato nulla. A intelligente e sfortunato aggiungerei un altro aggettivo: sensibile. Sapevo che abitava nella Bassa friulana, ad Azzano Decimo. Era marzo ma c’era ancora il rischio di nebbia. “Se è d’accordo le accorcio il viaggio e ci vediamo a Vicenza, dove lavora mio figlio”. E così andò. Il figlio Fabio, aveva studiato all’Isef come il padre e si occupava di una società calcistica che cresceva 270 ragazzi, la Leodari. “Seguo solo i risultati delle sue squadre, con tutto il resto del calcio ho chiuso da tempo, non m’interessa. Se accendo la tv è per Olimpiadi, Paralimpiadi, campionati di atletica, di nuoto, di basket, di volley. In sintesi: da giovane ho amato lo sport e scelto il calcio, poi ho amato il calcio e scelto lo sport”.

Nicolè, “Corriere dei Piccoli” 1966-’67, Figurina-Sticker.

Mentre mangiamo baccalà (tutto previsto, lodevole organizzazione) al centro sportivo e abbiamo deciso di darci del tu (lo propongo io anche se ho qualche anno di meno), penso che Nicolé non sbaglia un congiuntivo. “Da giovane studiavo, perché non si sa mai. E leggevo molto. Mio padre aveva un’edicola vicino alla stazione ferroviaria. Ho la tessera da giornalista pubblicista, mi piace scrivere. Molti per disprezzo dicono giornalai, ma per me giornalaio è una parola che sa di buono. Come fornaio”. E avanti con l’elogio della carta, del piacere di sfogliarla e annusarla. L’avrei abbracciato, ma tra anziani c’è sempre un certo pudore. E allora ho cercato di capire perché fosse durato così poco. Fondamentalmente, mi disse, per due motivi: aveva una muscolatura delicata, era costretto a fermarsi spesso e ogni volta che si fermava aumentava di peso. “Uno stopper si può dribblare, una bilancia no”, concluse. Ma non era una conclusione, solo una pausa. “Forse sono arrivato troppo presto, e poi pensavo molto, anche troppo. Pensavo che eravamo privilegiati ma bastava un colpo al ginocchio per farti tornare da dov’eri partito”.

Lanciato da Rocco in serie A (3-2 all’Inter), chiamato alla Juve per 70 milioni di lire più il prestito di Hamrin. In quattro anni il bilancio è di 3 scudetti, 2 Coppe Italia e una Coppa delle Alpi. Quella Juve fu anche la prima squadra italiana a vincere in casa del Real Madrid di Puskas, Di Stefano e Gento, nei quarti. Poi perse nello spareggio parigino. Una Coppa Italia anche con la maglia della Roma (suo il gol decisivo al Torino, in finale). Qualche record ancora imbattuto: più giovane goleador in maglia azzurra (18 anni e 258 giorni), più giovane capitano della Nazionale (21 anni e 61 giorni). A 27 anni stop. “All’Alessandria, in B, mi vergognavo di quanto mi pagavano. Siamo retrocessi, ma qualcosa mi si era rotto dentro già prima”.

“Non avevi la testa da professionista, Bruno, questo ti direbbero oggi”. “Può darsi. Boniperti diceva che bisogna vincere sempre, ma non si può vincere sempre. Alla Juve giocavo con l’8 o il 7 sulla schiena, anche se ero una punta centrale. Era il più giovane e stavo zitto, anche perché al centro stavano due signori di nome Charles e Sivori. Non ho nessun rimpianto. Ho imparato molto più da insegnante che da calciatore. Ho insegnato alle elementari, alle medie, gli istituti superiori. Ho insegnato anche ai disabili. Ho vissuto da calciatore una stagione felice con i dilettanti del Prata, imbattuti per tutto il campionato. E col calcio mi considero in pari”.

Nicolè oggi tra i suoi ricordi.

Pensava molto anche da insegnante. S’è mai visto un prof di educazione fisica che dà ai ragazzi compiti scritti? Lui sì. Perché, diceva, un ragazzo che ha difficoltà a parlare può esprimersi meglio scrivendo. Ecco, per me questa è stata una grande iniziativa. Me ne sono andato da Vicenza pensando che la chiave non dico della felicità, ma della serenità, dello star bene con sé stessi e con gli altri, stia nell’accontentarsi, nel non rincorrere l’impossibile ma nel dare il meglio, quale che sia il campo d’attività, ad altezza d’uomo. E questo di Bruno Nicolè, con molta stima, continuo a pensare.

Mario Bocchio

Sotto il titolo: Nicolè sulle figurine “Calciolampo” 1965-’66.

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